domenica 28 luglio 2013

Color Power

Che mondo sarebbe senza colori? Ci avete mai pensato?
Ad esempio se dico “giallo” cosa vi viene in mente, cosa mi rispondete? Così, a getto.

Per me giallo…
È un genere letterario che deriva dalla copertina di una fortunatissima serie di romanzi polizieschi editi "Arnoldo Mondadori";
è il colore dei taxi a NY e degli scuolabus americani;
è un invito a essere prudenti al semaforo. Sta per scattare i rosso;
è il colore che si vede meglio in lontananza;
è un colore che in natura si vede in abbondanza. Basti pensare alle corolle dei fiori, alle sfumature del grano, ai frutti che maturano sugli alberi, dal limone al mango, ai vari cereali come il mais, allo zafferano e al polline.
Ma soprattutto per è il colore del sole, del calore e della luce. E’ nel modo più assoluto il colore dell’estate che si veste di energia! 
I colori sono tanti e ciascuno di noi ne predilige uno a partire dalla scelta quotidiana dei capi da indossare, dall’acquisto di accessori, fino ad arrivare alla tinta delle pareti di casa, alla vernice della macchina ecc.
Ma come mai è un aspetto di comune interesse?

Può sembrare una cosa strana e spesso crea tanto scetticismo, ma i colori possono influenzare la nostra vita. E anzi, per dirla con le parole di Pablo Picasso: “i colori come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni”.

Infatti è universalmente condivisa l’idea che ad ogni colore è sempre stata associata una situazione fisica, uno stato mentale o una reazione emotiva.

Perché l’amore viene associato al rosso? Perché la morte al nero? E perché si dice che il mare è blu e il sole è giallo? Appunto, giallo.

In effetti se io guardo un’immagine colorata, un arcobaleno di colori questi mi suscitano emozioni e sensazioni uniche ed indescrivibili. I colori attirano l’attenzione, i colori danno un tocco in più, i colori sono vita. E quindi la parola “colore” per me è tanto importante quanto lo sono “viaggio”, “emozione”, “sogno”, parole chiave di questo blog.

E quindi parlando di colore, veniamo al titolo del post e al motivo per cui nella scala dei colori ho scelto proprio il giallo? E anzi, perché vorrei vivere i prossimi “306 giorni in un’ottica gialla”.


Non vi ho mai parlato dei Podisti da Marte. Chi o che cosa sono? Detta in poche parole sono una critical mass podistica, un gruppo di folli, ops, marziani, che si divertono a correre.

Fin qui nulla di strano. Quante persone corrono, quante lo fanno in gruppo. E quindi?

Ebbene, i marziani sono centinaia e corrono sempre per una buona causa. Sono nati per gioco ma ci credono fermamente e ormai sono più di 4 anni che una volta al mese si presentano nel centro di Milano e corrono mascherati, regalando fiori e pensieri ai passanti, aggregando i runners che incontrano per caso e soprattutto supportando una Onlus (negli ultimi due anni hanno raccolto e donato più di 60.000 euro a no profit che si occupano di bambini, disabili e disagio sociale). A chi li guarderà stupito (“ma da dove vengono questi qui???”) loro diranno: “Veniamo da MARTE!!!!”.

I loro colori ufficiali sono il giallo, l’arancio e il rosso. I colori caldi per eccellenza. Guarda caso (o forse tanto caso non è.

Ah, ho detto giallo. Ecco, segnatevelo.

Ma io, notoriamente anti-podismo, come mai li conosco?

Ebbene, io ho un fidanzato “marziano” convinto che li ha conosciuti per caso ma si è subito fatto coinvolgere dal loro importante progetto. Basti pensare che il suo blog “Pronti per cambiare il mondo” è nato tantissimi anni fa, quando ancora non conosceva questi “pazzi” e l’intento era quello di scrivere della propria vita, soprattutto quella parte dedicata al volontariato, ad aiutare il prossimo, a raccogliere fondi e alla solidarietà. Ma certamente agire da soli non è come muoversi in gruppo e allora poteva lasciarsi sfuggire l’occasione dei Podisti da Marte?!

Se non fosse un cattolico praticante, i primi tempi avrei anche potuto pensare che le innumerevoli attività che svolge con i “marziani” (oltre alla consueta corsa mensile) fossero una specie di culto, qualcosa di intoccabile e sacro, un –ismo religioso. Soprattutto perché l’entusiasmo, per lui che nelle attività di gruppo si trova a proprio agio, che è sempre pronto a conoscere persone nuove anche se sono tantissime in un colpo solo e a fare casino, è stato immediato e la passione è duratura. Questo ormai è certo.

Dal canto mio invece non mi sono fatta trascinare più di tanto. Apprezzo e supporto la loro raccolta fondi, l’aiuto al prossimo ma probabilmente non essendo una podista ed essendo caratterialmente più solitaria e riflessiva, prediligo maggiormente gruppetti ristretti di persone con cui confrontarmi apertamente su tutto. Tuttavia di tanto in tanto capita che partecipi a qualche loro iniziativa e allora eccomi a parlarvi della prima COLOR RUN italiana.

Dopo anni di attesa, è arrivata finalmente anche in Italia la corsa di 5 km più pazza e colorata del mondo.
La Color Run è in pratica una “paint race”, una corsa non competitiva che ha come protagonista il colore.
Chilometro dopo chilometro, esplosione di colore dopo esplosione, i partecipanti vengono coperti con
polvere di colore di tonalità diverse, da capo a piedi.
E all’arrivo il divertimento continua con il “color blast”, lo spettacolare lancio di colori collettivo a ritmo
di musica che scatena emozioni uniche, ricordi indelebili e infinite combinazioni cromatiche.

Non importa se sei un maratoneta o un passeggiatore da shopping, un atleta olimpico o un corridore della domenica: il divertimento è assicurato per tutti. Giovani e adulti, grandi e piccini.
Previste tre tappe in questa calda estate. La prima in Toscana, la seconda in Romagna e la terza a Milano.
Tuttavia, anche se dalle premesse si potrebbe pensare che per l’occasione mi sia “convertita” alla corsa, non è così. E per la prima tappa a Marina di Pietrasanta (27 luglio 2013) nemmeno i “marziani” hanno partecipato come runners, ma come partner ufficiali della manifestazione supportando l’organizzazione e i partecipanti grazie alla presenza dei loro membri in qualità di volontari lungo il percorso.
Di preciso 56 che sono partiti da Milano per arrivare a Marina di Pietrasanta e si sono suddivisi in quattro squadre che lungo il percorso hanno allestito i cosiddetti punti colore dai quali andava lanciato colore a più non posso sui 2000 partecipanti. Senza pietà. Per non parlare dell’efficiente squadra pronta a gestire l’arrivo dei concorrenti e a distribuire i colori per il “blast” finale.
Perfetta organizzazione, grande divertimento, allegria a più non posso. Eravamo un’enorme macchia di colore che ha invaso le strade di Marina di Pietrasanta! Eravamo gialli, arancioni, rosa, blu e verde. Ovviamente anche gialli. Il colore giallo non poteva proprio mancare.
Io ero nella squadra dei blu e a fine corsa mi sono presentata come un “Avatar”. I colori della festa sono in polvere ma tuttora, nonostante vari lavaggi, ne porto le tracce. Ma è bello così. Se volevo restare linda di certo non ci andavo.
 

E’ stata un’avventura, è stata  una festa, è stato un pot-pourri di colori. E’ stata gioia, emozione e  allegria.
E poi particolare fondamentale, siamo in estate che è sole e allegria, e nessuna corsa la può esprimere meglio della Color Run!
Per saperne di più e per godervi uno spettacolo colorato, guardate questo emozionante video:

 

Ma non finisce qui. Non ho ancora spiegato come mai il mio colore preferito è il blu, con tutte le sue sfumature esistenti, ma all’inizio del post ho scritto che voglio vivere “306 giorni in un’ottica gialla”.
Ok che è il colore dei Podisti da Marte, ok che era uno dei colori  della Color Run, ok che simboleggia l’estate ma poi?
La risposta nel prossimo post che non tarderà ad arrivare.
Intanto auguro una buona estate a tutti e ricordo le prossime tappe della "Color Run": Milano Marittima il 13 agosto dove sono attese 5000 persone e Milano il 7 settembre. Io ci sarò! E tu? L’essenziale è indossare qualcosa di bianco sulla linea di partenza e arrivare multicolor.

 





mercoledì 17 luglio 2013

XXL

XXL. No, non parlo di una collezione per taglie forti o per persone particolarmente possenti, giunoniche o comunemente definite “armadi”. E non si tratta nemmeno della rivista americana dedicata all’hip-hop.
No, parlo del Nordamerica (Usa e Canada nello specifico) dove ti basta fare un giro intorno a te stesso per vedere che è tutto grande, alto e imponente. E non è un cliché come invece molti pensano.
Negli Stati Uniti ci ero già stata due volte e in due posti che si possono considerare opposti in tutti i sensi.
Il primo impatto l’ho avuto nel lontanissimo (come volano gli anni, accidenti!) 1997 quando con i miei genitori feci il mio primo viaggio oltreoceano andando a vivere, più che a festeggiare, il Natale newyorkese.
New York l’avevo vista e sognata tantissime volte grazie al cinema. Già, il cinema che io ho iniziato ad amare fin da quando avevo 8 anni e guardavo i vecchi classici registrati da mio padre sulle prime videocassette. Che fossero storie di film realmente girati nella Grande Mela o fossero storie spacciate per “manhattiane” ma realmente girate altrove per questioni di costi, io New York già l’amavo prima di arrivarci.
E questo amore è ulteriormente cresciuto quando l’ho vissuta. Gelida (mi ricordo il freddo pungente di quando a piedi si svoltava da una Street a un’Avenue), sempre piena di gente di tutto il mondo, con milioni di addobbi e lucine natalizie e un fascino che è quasi inspiegabile a parole. Lì sì che si respira l’atmosfera natalizia. Altroché.
Il secondo impatto è stato molto più estivo. 9 anni dopo fu la volta delle Hawaii. Oddio, sono partita dall’Italia che erano i primi di febbraio e quindi ancora pieno inverno, ma arrivati là è stato come arrivare in Paradiso. 25°C, sole, le palme, il mare, il relax. Decisamente la location giusta per un viaggio di nozze (reale motivo per cui mi sono fatta 25 ore di aereo + attesa).
E le Hawaii sono proprio come si vedono in tantissime commedia americane. Per intenderci quelle alla Owen Wilson in “Brivido Biondo” o Adam Sandler in “50 volte il primo bacio”.
Insomma, due realtà completamente opposte: metropoli vs isole, cemento vs natura, fast food vs pesce e frutta sempre freschi.  Però entrambe veramente uniche nel loro genere.

Ed eccoci arrivati al 2013 e la proposta fin dai primi giorni dell’anno di tornarci a giugno per le vacanze estive. Fin da subito era chiaro che sarebbe stata un’esperienza ancora diversa perché l’idea era di partire dal Canada noleggiando un’auto e concludendo il viaggio proprio a New York.
E anche se non era assolutamente sicuro che l’avremmo fatto, anche solo il pensiero di poterci tornare e di avere già un’idea ben precisa delle vacanze estive, mi ha risollevato il morale non di poco.
Sì, per non abbattermi e pensare sempre positivo a me basta avere un grande progetto, meglio se si tratta di un viaggio e puoi stare sicuro che sono serena.

E poi è arrivato il giorno in cui ho avuto l’ok: potevo prenotare il volo e pianificare l’intero viaggio (quanto adoro programmare itinerari, studiare i “cosa non perdersi” nei vari posti e prenotare stanze carine e a buon prezzo in cui pernottare!??!). Credo che sia stato uno dei giorni più felici di quest’anno.
E così a tre mesi dalla partenza si è avviata l’intera macchina organizzativa.
Avremmo “viaggiato” in aereo, in auto, in pullman e a piedi. Saremmo partiti dal centro del Canada (Winnipeg per la precisione) per arrivare fino a New York, passando per tanti posti piccoli e grandi tutti da visitare.
Due settimane di vacanze itineranti come piacciono a noi perché a mio parere ogni luogo ha qualcosa da offrire e che merita di essere visto.
Averceli i soldi e il tempo per girare tutto il mondo!

E finalmente è arrivato anche il 14 giugno, il giorno della grande partenza. Quasi non mi sembrava vero di ripartire per il Nordamerica dopo 7 anni.
Quindi terza volta per me, prima per il mio compagno di viaggio.
Non racconterò per filo e per segno quello che abbiamo fatto perché potrei scrivere per giorni interi e invece riprendo il titolo del post per dare spazio non a descrizioni ma a impressioni ed emozioni, punti di partenza di tutti i post del mio blog.
Tant’è vero che già dopo un giorno dall’arrivo ci è stata rivolta la domanda: “Quali sono le vostre prime impressioni?”
Tra me e me ho pensato che forse era un po’ presto per chiedercelo tant’è che ho risposto che per me era la terza volta e che è stato un po’ come ritornare in un posto familiare. E questo anche se in Canada non c’ero ancora stata.
Però ho potuto notare come il Canada sia proprio un mix fra Svezia che io conosco molto bene e gli Stati Uniti. Alla Svezia ci assomiglia per i paesaggi, la flora e la fauna in generale, per il clima, per gli ampi spazi, XXL per l’appunto, per la pulizia, per l’ospitalità. Agli Stati Uniti per la lingua, per le abitudini alimentari (ahimè!), per la multiculturalità ormai parte integrante della società e per… le grandi dimensioni in tutto e per tutto.
E proprio quest’ultima è stata la risposta che è stata data senza esitazioni dal mio compagno di avventura: “E’ tutto fuori misura, di proporzioni esagerate”.
Da cui è nata l’idea di questo post. Se non altro perché è una risposta che mi ha davvero colpita (forse perché io non l’avrei mai data) e ha fatto scattare il mio lato più creativo e sognatore.
Il pensiero di scrivere un post dedicato a questo particolare mi ha subito entusiasmata, tant’è che ho iniziato a notare maggiormente i vari aspetti MAXI, prima in Canada e poi negli Usa.
XXL sono le persone (e di conseguenze le taglie) e più di una volta ho notato come il mio compagno di viaggio che non è propriamente un nano (187 cm!!!) fosse invece bassettino confrontato a certi omoni che incontravamo. E un paio di volte di pari altezza a delle donne;
XXL sono le porzioni di cibo, il vero incriminato delle taglie extralarge, e già dopo la mia primissima prima colazione la dieta è stata messa temporaneamente nel cassetto. Con la speranza e la preghiera di non riprendere nemmeno un kg dopo mesi di dieta.
E durante le due settimane ho anche potuto realizzare come siano proprio loro gli inventori del fast food. Il fast food declinato in vari modi ma per tutti i tipi di alimenti e chiaramente per chi viaggia con low budget resta la soluzione più gettonata.
L’unica gioia è stato tornare a casa e scoprire che non solo non avevo preso neanche un kg ma che addirittura ne avevo perso uno. Evvai! Il segreto? Muoversi, camminare tanto, macinare chilometri, sudare e anche tutte le schifezze ingerite non si trasformeranno in rotoli di ciccia in più.
XXL sono i letti, ovviamente proporzionati alla mole delle persone. Ma quanto è bello potersi allargare senza problemi!?
XXL sono le auto tant’è vero che noi avevamo prenotato un’auto compatta per viaggiare da Winnipeg a Toronto e ci siamo ritrovati un Mitsubishi Outlander. Un Suv. Certo, i nostri standard di auto compatta non sono i loro. Assolutamente.
E quindi con questo bel quattroruote abbiamo potuto viaggiare comodamente sperimentando il cambio automatico con tanto di impostazione di velocità massima e goderci le highway panoramiche.
Sì perché XXL sono anche le strade. Ovvio. E chi le percorre non potrà far altro che notarlo.
XXL sono le distanze che a volte percorri senza incontrare anima viva;
XXL sono i fiori, gli immensi bacini d’acqua del Canada e le cascate del Niagara, una delle due attrazioni superlative che indubbiamente mi hanno lasciata a bocca aperta.
La seconda attrazione è stata a New York, rappresentata dalla visita a una delle sette meraviglie del mondo moderno: l’Empire State Building.
E a proposito di New York, sembra scontato dire che XXL sono i palazzi (anche se costruiti all’inizio del secolo scorso) e i grattacieli. E se poi si pensa ai nostri condomini da 8 piani che a noi sembrano alti, il confronto fa sorridere.
Ma è un sorriso misto a stupore che hai sia quando camminando alzi lo sguardo verso l’alto e ti senti piccolissimo in confronto a quei colossi di cemento e vetrate, sia quando sali per la prima volta (e per me è stato così!) in cima all’Empire State Building che in seguito al crollo delle Torri Gemelle è tornato ad essere l’edificio più alto della città. Un’esperienza superlativa e un’emozione fortissima perché immancabilmente il pensiero è andato all’attentato dell’11 settembre e a come siano morte tutte quelle persone. Parlare di 110 piani ed esserci è qualcosa di indescrivibile. E noi, fra l’altro, eravamo “solo” all’86°. Immaginarsi altri 24 piani e un volo da lì è assolutamente da brividi lungo la schiena.
A questo punto una domanda sorge
spontanea: è tutto vero? La sensazione netta è quella di essere sempre sul set di un film. Ti aspetti di vedere Woody Allen, Scarlett Johansson, Clint Eastwood o Robert De Niro da un momento all’altro. Quelle immagini nella vita le hai viste una miriade di volte e ti sembra di averle già vissute se non fosse per le dimensioni e la grandiosità che sono inimmaginabili. E per chi ama il cinema a 360° come me, vedere dal vivo le location dei film come le abitazioni di periferia con i loro curatissimi giardini, un hotel (Il Plaza), un giardinetto, un negozio (Tiffany & Co) o una stazione (Grand Central) è veramente un’emozione.
Ma chiaramente oltre all’XXL e alla pomposità di certe situazioni, di contraddizioni ce ne sono parecchie. Che dire delle vecchie e maleodoranti moquette presenti in tutte le strutture alberghiere? Oppure dell’aria condizionata sparata in tutti i luoghi pubblici e regolata probabilmente sui 0°C? E dello spreco di luci ne vogliamo parlare?
Eppure “this is America” e in un paese a cavallo tra due oceani, con un’estensione di circa 8 milioni di km quadrati e qualcosa come 300 milioni di abitanti (escludendo l’Alaska e le Hawaii), è normale aspettarsi di tutto.
A questo punto posso affermare di aver visto il Nordamerica? Nemmeno per sogno!
Gli spettacoli della natura e del mondo moderno da vedere sono ancora moltissimi. Tutto il lato ovest del Canada e soprattutto l’Alaska che volente o nolente, mi attira tantissimo (io che sono così freddolosa non dovrei esserne affatto affascinata); le montagne rocciose e i fiordi; tutti gli animali non avvistati nella prima settimana di viaggio (volpi, cervi, cerbiatti, lepri, oche canadesi, scoiattoli e persino un’alce li abbiamo visti) e poi ancora Washington, la città che diede i natali a Elvis, i cactus dell’Arizona, la route 66 con chilometri di deserto, il caldo torrido e nessuna rete per i cellulari, il Grand Canyon, il Monument Valley, la Riserva indiana dei Navajos, accampamenti, cavalli pezzati, e un paesino visto nei Western, grandiosi parchi nazionali, tra bisonti al pascolo e impetuosi torrenti ideali per il rafting e poi anche i casinò e le innumerevoli luci di Las Vegas, i saliscendi di San Francisco, Alcatraz e poi Hollywood ecc.ecc! Quanto offre questo grande continente!
Bisogna essere sul luogo per capirne la grandiosità ed è decisamente meglio togliersi dalla testa l’idea di scoprirlo in un unico viaggio: la strategia migliore è certamente quella di scegliere brevi itinerari invece di saltellare da un posto all’altro cercando di vedere tutte le mete turistiche più famose. A meno che non si voglia trascorrere tutta la vacanza in macchina.
Intanto la mia fortuna sta nell’aver intrapreso un viaggio del genere, in cui ho saziato le mie curiosità, ho visitato luoghi nuovi, ho scattato centinaia di foto perché come per ogni viaggio sono incontenibile, ho incontrato amici del posto e altri “emigrati”, ho vissuto lo spirito sportivo che è tutt’altro rispetto al nostro e soprattutto provato emozioni fortissime e realizzato un'altra parte del sogno.

venerdì 17 maggio 2013

Intercreattiva


E’ una giornata di pioggia e mi tocca prendere i mezzi pubblici per andare dal dentista.
Sono cinque anni che ho il dentista in pieno centro e per quanto riguarda i medici sono molto abitudinaria. Fatico a cambiare anche se talvolta sarebbe decisamente più comodo.
Ma visto che dal dentista non si va tutte le settimane, va bene così.
Affronto la giornata prendendola con filosofia e magari se mi immagino di essere a Londra dove piove talmente tanto che le persone non escono nemmeno con l’ombrello perché è quella la condizione naturale, posso anche viverla positivamente.

Mentre mi avvio a piedi schivando le pozzanghere penso che oggi dovrò fare a meno di smanettare in continuazione con il mio tablet perché ho dimenticato il cavo per ricaricarlo in ufficio e la batteria già mi segna che è al 28%.
Io e il mio tablet siamo diventati inseparabili da qualche mese. Ovunque io vada, lui c’è, qualunque cosa io faccia, lui mi dà supporto.
Non è neanche un anno fa che un amico mi aveva mostrato il suo e tra me e me avevo pensato che era un acquisto inutile, che il portatile o lo smartphone erano già più che sufficienti. Poi però mi era capitato tra le mani un volantino in cui venivano spiegate nel dettaglio tutte le funzionalità di un apparecchio del genere e quindi ho iniziato a interessarmi maggiormente alla cosa fin quando ho deciso di comprarmelo. Ovviamente Wifi e 3G perché se no ‘dove pensi di andare senza?’. E con le mie 100 – sì, sono decisamente troppe – App scaricate, faccio ormai di tutto. Chatto, scrivo, faccio check-in in tutti i luoghi che visito e frequento abitualmente, cerco informazioni in internet, gioco e soprattutto sono social: condivido, aggiorno il mio stato su facebook, aggiungo tweet ai preferiti, salvo immagini nelle mie “board” su Pinterest e fotografo, applico effetti speciali alle foto e partecipo ai contest su Instagram perché la fotografia resta uno dei miei amori più grandi. Tutto questo con un apparecchio di 7”. Fantastico!
Oggi invece lo potrò usare in minima parte e già mi sento che mancherà qualcosa.

Arrivo alla metropolitana, apro la mia borsa per tirare fuori il biglietto e li vedo. I miei due cellulari, anzi, smartphone, uno con la tastiera e l’altro touch e poi il mio tablet.
Già, in una borsetta normalissima riesco a farci stare tutta questa tecnologia. Ma mi sorge spontanea la domanda: a che pro?
Oltretutto con il tablet faccio tutte quelle cose elencate sopra, ma non telefono. Mentre con gli smartphone non faccio nient’altro se non telefonare e mandare sms. E allora perché ogni giorno vado in giro con tutti e tre?
Sì, lo ammetto, sono tecnologia-dipendente da più di 20 anni. Il mio primo IBM fu l’inizio di tutto questo. Avevo 11 anni e all’epoca lo usavo come videogioco e come evoluzione della macchina da scrivere. Eppure è da allora che ho quotidianamente a che fare con la tecnologia e non posso più farne a meno. 
E non parlo solo di computer e di cellulari, ma di tutta la tecnologia che ho in giro per casa. La stampante, la macchina fotografica digitale, il decoder, il lettore dvd, per non parlare di tutti gli elettrodomestici che ormai sono tutti dei piccoli robot.
Eppure lui manca! Il televisore. Già, sono due anni che vorrei comprarmi un televisore da 40” ma continuo a rimandare l’acquisto. Due anni fa l’avrei preso Lcd; se vai adesso in un negozio e pronunci queste tre lettere è probabile che ti correggano e dicano “Intende Led, Signora?!”.
E che lo dico a fare? L’evoluzione tecnologica è talmente rapida che qualunque acquisto fai oggi, fra tre mesi è già obsoleto. Ma allora perché non abbassano i prezzi di vendita? Almeno faremmo tutti parte di questo fantastico mondo in evoluzione continua.
Eppure quando apro i volantini delle più grande catene di negozi di elettronica, informatica e tecnologia lo vedo che i prezzi dei televisori sono notevolmente scesi rispetto a due anni fa e, peggio ancora, rispetto a 20 anni fa quando allo stesso prezzo compravi un 20” che con il suo ingombrante tubo catodico pesava un quintale.
E allora perché aspetto? Sarà perché in fin dei conti ho smesso di guardare la tv da 5 anni e la accendo solo sporadicamente per guardare un film che non ho potuto guardare al cinema, eventi sportivi importanti o qualche fiction carina? Sarà perché è il cinema il mio vero amore e la televisione mi sembra così povera in confronto? O sarà proprio perché sono tecnologia-dipendente e tra tv e computer scelgo il secondo così come tra tv e cinema, tv e libro, tv e musica. Sì, del cinema, della tecnologia e della musica non posso proprio fare a meno. Della tv, eccome. C’è chi non mi crede quando lo dico e pensa che lo dica solo per essere diversa dalla “massa”, ma per fortuna che c’è anche chi la pensa come me.
E non nascondo il fatto che in compenso mi rifugio nelle altre cose che ho detto. Sono quelle la mia vera passione. Sicuramente anche perché stimolano il mio essere creativa.
Non potrei mai vivere senza la creatività. I colori, la fotografia, un racconto scritto, la creatività manuale e la creatività in cucina, i viaggi, i sogni e i progetti per il futuro. Tutto ciò che amo è creatività, è il mio quotidiano e nonostante tutto riesco a “scovarla” e a darle il suo giusto valore anche quando lo strumento per farlo è un apparecchio elettronico.
Oggi voglio coniare un termine che mi definisca e che scopro essere ‘intercreattiva’ (le due t non sono una svista essendo la parola l’unione di ‘interattiva’ e ‘creativa’): un po’ creativa mentale e manuale e un po’ tecnologico-interattiva. Credo che sia la strada che perseguirò e che sia il giusto compromesso per rimanere ancorata al passato ma con l’occhio sempre rivolto al futuro.
E sarà anche il messaggio che un giorno vorrei trasmettere ai miei figli che saranno da subito catapultati nel mondo “digitale”.

Salgo sul treno e non potendo usare il mio tablet mi guardo intorno. Mi è sempre piaciuto osservare le persone, ma non per curiosità, invidia, disprezzo, ma proprio per studiare i loro comportamenti a livello socio-psciologico. E quindi oggi cosa vedo?
Alla mia destra c’è una signora asiatica che sta giocando a biliardo sul suo nuovissimo Samsung Galaxy S4. Alla mia sinistra c’è una ragazza molto alta che non ha occhi che per il suo iPad ben protetto in una custodia rigida rossa. Starà leggendo, giocando o guardando delle foto? Chissà… Seduti ci sono un signore ben vestito che sta parlando al telefono.. ops, all’iPhone e di fianco a lui un altro signore che ha appena estratto dalla borsa a tracolla il suo fiammante MacBook Air. 2 mq e tutti già “connessi”. 

Quasi quasi sembro io quella fuori posto.
Poi però lo vedo. Un ragazzo giovane con in mano un libro. E’ talmente immerso in quelle pagine che non si interessa minimamente delle suonerie varie che si alternano in questo piccolo spazio.
Fra me e me penso che in apparenza è lui quello diverso. Ha in mano un libro, un prodotto cartaceo, l’opera di un autore che per diventare famoso e miliardario come Bill Gates o Steve Jobs dovrebbe scrivere centinaia di bestseller. 
Eppure con una piccola opera è riuscito a catturare l’attenzione di chi è ancora innamorato della narrativa e del profumo della carta.
Torno ad osservare gli altri passeggeri e penso che fino a un paio d’anni fa, prima del boom di questi tablet, ebook e smartphone all’avanguardia, anche loro occupavano il loro tempo con una lettura, se non di un libro, di una rivista o del giornate. Ora invece non fanno neanche il gesto di sfogliare o ricomporre la pagina quando si stropicciava o si piegava. Basta un movimento rapido di un solo dito e la loro richiesta viene esaudita.
Torno a guardare il ragazzo e mi viene voglia di scrivere, di scrivere questo post.
Sorrido al pensiero che mi sia bastato alzare lo sguardo dalla mia amata tecnologia per poter di nuovo attivare la fantasia e la voglia di creare o meglio, scrivere. Sì, ok, nel mio blog. Confermo, intercreattivamente.

NB. Eppure credo che quel 40” me lo comprerò. Ho ancora così tanti film del passato, del presente e del futuro da guardare ;o)

venerdì 25 gennaio 2013

Ci vuole tanta fede…


Torno a scrivere dopo mesi di silenzio e purtroppo non per un lieto evento, ma per qualcosa che per forza ti fa tirare fuori le emozioni, che hai bisogno di tirare fuori.

Torno adesso dal funerale. Incredula e addolorata come all’ultimo funerale a cui sono stata quattro anni e mezzo fa e che mi ha sconvolto l’esistenza.
In realtà quando una vita si spegne è sempre molto doloroso e da quel 10 febbraio 2002 anche i funerali sono diventati come una prova da superare. Una di quelle prove in cui devi farti forza, in cui pensi di non essere da solo e il solo a stare male, ti credi forte e magari ti convinci di essere “vaccinato”. Ma non è vero.
Anche questa volta c’è stata tanta commozione: la chiesa “colorata” di giallo, il giallo “marziano” che lui tanto amava, perché segno dell’appartenenza a un gruppo di amici con una passione in comune. Quel gruppo di cui portava, agganciata al pigiama, la spilletta l’ultimo giorno in cui ci siamo visti.
Tanti erano gli amici, tante le persone che gli volevano bene e che sono rimasti turbati da quanto accaduto. 
Ci vuole tanta fede per poter dire che era una festa e qualcuno dirà che la parola funerale ha in comune con la parola festa solamente l’iniziale;
Ci vuole tanta fede per poter vivere con serenità l’ultimo saluto a una persona cara.
Ci vuole tanta fede per poter accettare la perdita e non incolpare nessuno.
Eppure è così! Perché chi ha fede sa che un funerale celebra il passaggio dalla vita terrena a quella eterna; chi ha fede sa che ora la persona è tornata fra le braccia del Padre e lì riposa in pace.
E oggi questa serenità io l’ho vista e sentita con i miei stessi occhi, con il mio cuore.
Era sul viso della sua amata che ha perso una parte così importante della propria vita, ma ciononostante sembrava che fosse lei a dover consolare tutti.
E in parte era anche in me, perché con la fede la Sua vicinanza mi ha dato forza e mi ha rasserenata e per la primissima volta nella mia vita ho partecipato alla funzione provando un senso di pace interiore.
Siamo poi noi umani che non accettiamo la morte a rendere i funerali così tragici; sono le lacrime, sono le parole, sono i ricordi, i testi o le lettere che vengono letti e la sensazione che sia tutto finito.
Non importa quanto si era legati alla persona, non importa sapere che prima o poi tutti moriremo; il fatto è che la morte provoca sempre un grande vuoto a chi resta e anche se il tempo lenisce il dolore, il ricordo, le sensazioni provate in questi momenti non si cancelleranno mai.
Più forte era il legame con chi ci ha lasciati, più la cicatrice sarà evidente. Ma è una cicatrice che ricorderà sempre quanto vero e bello fosse quel rapporto.

L’altra sera continuavo a ripetere: “Di nuovo tu… maledetto” perché per me il cancro è il diavolo. E’ il male più grande che c’è, è il male del secolo e io mi domando ogni giorno quante persone dovranno ancora morire per colpa sua!?
In passato c’erano la tubercolosi, c’era il colera, la peste, vere epidemie e pandemie, ma c’era anche maggiore ignoranza, il progresso tecnico-scientifico era inesistente o agli albori e le persone non erano benestanti. Ci si ammalava e si moriva a volte senza possibilità di essere curati.
E proprio come allora, ora c’è lui, il maledetto, e nonostante il progresso della scienza, le maggiori risorse e l’informazione, il più delle volte vince. Perché?!?
Quante persone conoscevo che sono state sconfitte da lui. Qualcuno è stato colpito e vinto nel giro di pochi giorni; qualcuno si è trascinato ferito per mesi e mesi o addirittura anni e poi non ce l’ha più fatta; qualcuno è riuscito a sconfiggerlo ma poi l’ha visto ritornare, come per prendersi la rivincita, anche molti anni dopo. E ogni volta mi sono chiesta “Perché??!!”

Ho due grandi perdite alle spalle che mi hanno cambiato la vita e “trasformata” in quella che sono oggi.
Quando mi guardo indietro spesso penso di essere un’altra persona… tanto può cambiarti un dolore.
Il cancro è entrato con violenza nella mia vita, in quelli che si definiscono gli anni più belli, spaccandola in due. Non colpita personalmente, ma quando tocca alle persone a te più care, è come se lo fosse.
La prima volta è stata la “versione veloce”: 4 mesi e se ne è andato; la seconda volta è stata la “versione lunga e dolorosa”: 5 anni, i più dolorosi di tutta la vita. Se ci penso, 1/6 della mia vita e questo spiega perché sono cambiata così tanto.
Ancora oggi a distanza di anni il senso di sconforto è lo stesso. Ti chiedi perché è successo proprio a te, perché sono caduti ad appena 6 anni di distanza l’uno dall’altro, perché non hanno potuto vedermi realizzata da adulta, perché mi hanno lasciata sola.
La cicatrice è molto evidente e non posso ignorarla. E’ sotto i miei occhi, ogni giorno.
Il dolore grande dei primi momenti non c’è più perché ho fatto di tutto per continuare la mia vita, perché è così che desideravano per me, cercando anche di interpretare quanto mi avevano trasmesso loro, quanto mi avevano detto quando ero adolescente. Sì, magari all’epoca rispondevo che non mi interessava o forse nemmeno li ascoltavo e in realtà a distanza di anni queste frasi mi sono tornate alla memoria e ho realizzato che no, li avevo ascoltati e da qualche parte avevo incamerato le informazioni. Tuttora mi sembra incredibile a pensarci, ma sono anche convinta che questo mi permetta di sentirli sempre vicini, come se continuassero a seguirmi nella mia quotidianità.
Però una malinconia di fondo resta e non la cancelli. E’ inutile, se una persona l’hai amata, continuerai a sentirne la mancanza. L’essere umano è fatto di sentimenti e volenti o nolenti, sono loro che prevalgono sulla ragione.
E se poi ti si ripresenta la stessa situazione anche se a distanza di qualche anno e chiaramente a un’altra persona, ti senti riprecipitare in quel vortice che ti risucchia e ti fa crollare tutte le tue difese. All’improvviso ti senti di nuovo piccola piccola, fragile, non sei più nessuno. E poi arriva quel momento. Game over.

Tre settimane sono poche, troppo poche per capacitarsi di tutto questo.
All’inizio non ho voluto crederci, sembrava tutto così assurdo e invece è arrivato troppo presto il giorno in cui me ne sono dovuta rendere conto per forza e all’improvviso ho sentito di nuovo quella stretta al cuore. Stava per vincere ancora una volta.
E immancabilmente mi sono ritornati alla mente come un flash, i miei ricordi di quei 5 anni così sofferti. I ricordi più forti che non dimenticherò mai.
La scoperta della malattia, la speranza, le cure, la sofferenza, i pianti, la rabbia, il dolore, gli ospedali, la forza interiore, cartelle cliniche e medici, le corse in farmacia, il progredire della malattia, le preghiere e la speanza, quella luce che si spegne negli occhi, le ultime parole, gli ultimi gesti, le ultime lacrime e la fine.
Anche se non rivissuti in prima persona, anche questa volta è stato come immedesimarmi in quella ragazza, la sua amata compagna, che stava vivendo le stesse sensazioni vissute da me anni fa - stessa sofferenza, angoscia, la paura più grande, il vuoto - e stava perdendo il suo amore.
Ho sofferto con lei, ho sofferto per lei e ho pregato per lui. E continuavano a passarmi davanti agli occhi le immagini e i “suoni” del nostro ultimo incontro. La malattia che l’aveva distrutto nel fisico, ma non nello spirito. Il sorriso c’era, il senso dell’umorismo ancora di più e soprattutto tanta serenità e tante speranze.
Com’è possibile che nel giro di dieci giorni la situazione sia precipitata in questo modo?! Perché i suoi sogni sono stati interrotti così presto!? Perché morire giovani?!
Tuttavia la morte non è mai vana. Anzi, quel giorno ho ricevuto un’altra grande lezione di vita!
E ripensando alle mie due esperienze passate mi convinco che per lui è sicuramente stato meglio così.
Quando ormai non c’è più niente da fare, si può solo sperare che la persona non soffra e si spenga il più velocemente possibile. Anche se è una dura lotta fra ragione e sentimento, fra il non volerla lasciare andare e l’augurarle il riposo in pace. 
In realtà ti resta sempre vicina. Sì, magari non puoi più vederla, né sentirla, né toccarla, ma quello che il male non può fare è cancellarla dalla memoria di chi resta, dal cuore di chi l’ha conosciuta. 
Anzi, passato il dolore più forte, ritorneranno alla mente solo le cose belle: tutto quello che ha lasciato dietro di sé, le sue qualità, le sue passioni, i suoi modi di dire, le raccomandazioni, i sorrisi e la sua grande forza… quella con cui ha affrontato il male cercando di abbatterlo.
E sono questi ricordi che servono per andare avanti, ripensandola con un sorriso, e ricordarsi sempre che ci vuole vedere sereni.
Qualcuno in sua memoria ha riportato in facebook una poesia. E sono rimasta colpita dalla dolcezza della sua conclusione da volerla riportare proprio qui:
“Fino ad allora vivi la tua vita in pienezza e quando hai bisogno di me, sussurra il mio nome nel tuo cuore.... ed io sarò con te"
Sì, la vita va vissuta e ripenso con dispiacere e rabbia a tutte le volte in cui mi faccio sopraffare dalla quotidianità e do tutto per scontato.
Tutti amiamo la nostra vita anche se passiamo tanto, troppo tempo a lamentarci e spesso delle cose più futili.
La vita è gioia e dolore, è emozione, è rispetto, è orgoglio, è ricchezza soprattutto interiore e innanzitutto è Dono ed è Amore.
E a tal proposito concludo proprio con le sue parole, tratte dal finale dell’ultimo post nel suo blog:
“…Queste cose, ogni giorno, sono scontate, ma non è così. Ho combattuto e sofferto per averle e mi rendo conto, solo a volte, che in realtà devo meritarle ogni giorno, devo fare del mio meglio per mantenerle. E' bello averla a fianco ogni giorno, andare e tornare dall'ufficio con i suoi sorrisi”
Sì, lui l’aveva capito. Ha vissuto la vita e ne ha riconosciuto la bellezza; come lui stesso ha scritto, ha conosciuto l’AMORE (non solo con la A maiuscola ma con tutte le lettere maiuscole) e ne ha dato tanto; la sua forza sono state la speranza e la fiducia. Quindi la fede.

«La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Ebrei, 11,1)

Grazie Andrea!