«Tutti
nella vita abbiamo bisogno di qualcuno che si preoccupi per noi.
Abbiamo tutti bisogno di un “Buongiorno” speciale, di una
“buonanotte” piena d’amore.
Abbiamo tutti bisogno di quella carezza che ci faccia
sentire speciali e di un abbraccio che ci faccia sentire al sicuro»
Sono passati tre anni da quando eravamo da queste parti, eppure
sembra ieri.
Quasi non riesci a renderti conto che hai affrontato un
viaggio lunghissimo per poter rivedere e rivivere tutto ciò.
Quando è un aereo che ti trasporta, il mondo ti sembra così
piccolo. Un momento prima eri a casa tua, affannato dal tuo quotidiano e poi
tutto ad un tratto, non molto dopo, ti ritrovi da un’altra parte, in un altro
paese, addirittura in un altro continente, a chilometri e chilometri di
distanza da tutto ciò che ti protegge e ti dà sicurezza. Eppure fatichi a
realizzarlo e hai la sensazione di non essere poi così lontano.
L’Etiopia ci accoglie, ci abbraccia così come si riabbraccia
un amico che non vedevi da un po’ di tempo.
Così il sole che ci dà il benvenuto colorandoci un po’ la
pelle, così i paesaggi che attraversiamo per 350km, ma soprattutto le persone
di pelle nera che ci riconoscono stranieri - di pelle chiara - ma sono ben
contenti che siamo arrivati. Non ci conoscono, ma ci salutano; non parliamo la
stessa lingua, ma ci sorridono e con un sorriso sei certo che ci si capisce anche
in capo al mondo, e soprattutto, a qualunque età, persino i più piccoli, sanno
che siamo lì per aiutarli. In un modo o nell’altro.
I piccolini, diciamo fino al decimo anno di vita, quando ci
vedono, corrono, cercano di raggiungerci (questo anche se siamo in macchina) e
urlano “You you you”, tanto è evidente che siamo “stranieri”. Sì, perché il
loro “you” non significa “tu” ma “straniero”. E a uno straniero ci si rivolge
in inglese. Questo è ovvio, no!? ;)
Se poi capiscono che non riescono ad avvicinarsi, ci
sorridono e alzano la loro manina per salutarci. Sono felici di vederci, perché
per loro siamo importanti.
Quando invece si stabilisce un contatto, dopo il classico
“what’s your name?!” detto più o meno bene, specialmente dai più piccoli, ci
chiedono se hai qualcosa per loro. Questo sempre. Anche se, rispetto all’altra volta, noto
richieste diverse.
Nessuno questa volta mi chiede di dargli la maglietta, il braccialetto
o la gomma da masticare. Questa volta reclamano le “caramela” (caramella) e la
“gazeta” (giornale), ma quando gli faccio capire che non ne ho e che piuttosto
gli posso donare me stessa, il mio tempo, ho già vinto.
Tutti in fila per la "gazeta" |
Come dicevo in apertura, noi tutti abbiamo bisogno di
qualcuno che si preoccupi per noi, che ci dia una carezza, ci consoli e ci
faccia sentire speciali.
E loro me lo dimostrano apertamente. Vogliono proprio me che
fino a un momento prima non sapevo della loro esistenza, né tantomeno loro si
sarebbero immaginati di incontrarmi.
E quando li vedo sorridere il mio cuore si riempie di gioia,
perché i loro sguardi non mentono.
Probabilmente per molti di loro il poco tempo che gli dedico
significa tutto. Molti sono orfani, molti vengono da situazioni familiari
disastrose, e il poter stare con me, così diversa da loro, è la carezza di cui
hanno bisogno.
Sanno che ci sono e sanno dove potermi trovare. Ogni giorno,
nel loro solito tran tran, sanno esattamente dove sono e quando finalmente mi
vedono, mi corrono incontro, mi abbracciano felici e fanno a gara per chi
riesce a ricevere più attenzioni. Qualcuno mi chiama “sister” (sorella, nel
senso di suora, dato che per loro un “bianco in missione” non può che essere un
sacerdote o una suora) e qualcuno mi chiama per nome e in questi momenti mi
rendo conto di quanto loro riescano a darti, a trasmetterti, quando invece hai insito
il concetto che sei tu qui per loro.
Non voglio fare differenze ma purtroppo sono una, con due
braccia e due mani, e devo fargli capire che si fa a turni per essere presi in
braccio, per fare una foto insieme o per fare qualche giravolta.
Sono impazienti ma capiscono. E capiscono anche se le parole
che io conosco di amarico sono veramente poche. E poi, puri come tutti i bambini
di questo mondo, credono ai miei “a domani”, “più tardi lo facciamo” “aspetta
che torno presto da te”. Cerco di mantenere le promesse, sento che glielo devo
perché non sono come tutti gli altri bambini, loro sono “speciali”, ma
purtroppo a volte è solo un modo per avere un po’ di tregua, vista la loro
insistenza. E’ un’insistenza “buona”, ma pur sempre stancante.
Gli adulti dal canto loro sono felici di conoscermi e mi
accolgono come una sorella. E se poi già li conoscevi, sei un’amica, senza se e
senza ma. Mi offrono quello che hanno da offrirmi; pur di comunicare con me,
mischiano la propria lingua con l’inglese e un poco di italiano (in fondo
quando siamo qui, trattiamo con persone che lavorano e vivono in missioni
salesiane di cui molte gestite da preti italiani) per cui, pur sembrando
strano, nascono delle vere conversazioni. Inoltre mi danno questa bellissima
opportunità di imparare ogni giorno una nuova parola/frase di amarico, che a
mano a mano va ad arricchire il mio vocabolario che mi fa sentire dentro a
questa storia, integrata nel contesto. Ci dicono che siamo matti a venire a
trascorrere da loro una parte del viaggio di nozze; sanno stupirmi quando
dimostrano di avere voglia di fare, lavorare ed aiutare, perché immancabilmente
penso al fatto che siamo nel Terzo Mondo, dove la povertà regna sovrana e la
vita è indietro anni luce rispetto all’Occidente e quindi mi domando come sia
possibile, se in fondo questa volontà di lavorare c’è; e in un certo senso mi
rassicurano circa l’evoluzione del paese, mostrandomi cellulari all’avanguardia
con tanto di account facebook , parlando dell’espansione dell’università, costruendo
case e alberghi meno fatiscenti di quelli preesistenti, sistemando le strade
affinché siano più sicure e più percorribili e spostandosi con le moto e non
più con i bajaj (ape adibiti a taxi per i piccoli spostamenti) come invece
facevano ancora tre anni fa.
Stare con loro non è emotivamente coinvolgente come lo stare
con i bambini, ma è nel modo più assoluto un’occasione unica di incontro con
chi in apparenza è diverso da te, ma nel confronto diretto ti fa capire che non
è così e che le differenze sono preconcetti e sovrastrutture del tutto
innaturali.
Tutti viviamo, viviamo la nostra vita e cerchiamo di farlo
al meglio. Tutti con gli stessi sogni, tutti con le stesse speranze. Tutti
abbiamo bisogno di amore e che i nostri diritti vengano rispettati.
Partire, andare in “missione” in un paese come l’Etiopia
significa camminare, lasciare tutto, uscire da se stessi, rompere la crosta di
egoismo che ci chiude nel nostro io.
E’ smettere di girare intorno a noi stessi come se fossimo
il centro del mondo.
E’ non lasciarsi bloccare dai problemi del mondo al quale
apparteniamo: l’umanità è più grande.
Missione è sempre partire ma non è divorare chilometri.
E’ soprattutto aprirsi agli altri come a fratelli, è
scoprirli e incontrarli. E se per incontrarli e amarli è necessario
attraversare i mari e volare lassù nel cielo, allora missione è partire fino ai
confini del mondo.
E’ stata questa la mia seconda volta in Etiopia. Sicuramente
rimanere una sola settimana è stato davvero troppo poco, anche se l’ho vissuta
pienamente, all’etiope, cercando di accogliere, apprezzare e incamerare tutto
ciò che questo meraviglioso paese è in grado di offrirmi.
Ma visto che fin da subito ho realizzato che in realtà tutto
qui mi è così familiare e mi fa sentire a casa, non ho alcun dubbio sul fatto
che ritornerò.
Oltretutto i nostri amici ci hanno salutati augurandoci un
luminoso futuro insieme e di tornare “IL PROSSIMO ANNO” con un bambino.
Va da sé che non si rendono conto di quanto sia difficilmente
realizzabile ritornare fra un anno. Per essere realisti. Però è bello ritornare
alla propria vita sapendo che a più di 8.000km di distanza hai degli amici che in
ogni caso ti aspettano.