martedì 15 luglio 2014

‘Iteyop’eya ädärägä (L'abbraccio dell'Etiopia)

«Tutti nella vita abbiamo bisogno di qualcuno che si preoccupi per noi.
Abbiamo tutti bisogno di un “Buongiorno” speciale, di una “buonanotte” piena d’amore.
Abbiamo tutti bisogno di quella carezza che ci faccia sentire speciali e di un abbraccio che ci faccia sentire al sicuro»

 
Sono passati tre anni da quando eravamo da queste parti, eppure sembra ieri.
Quasi non riesci a renderti conto che hai affrontato un viaggio lunghissimo per poter rivedere e rivivere tutto ciò.
Quando è un aereo che ti trasporta, il mondo ti sembra così piccolo. Un momento prima eri a casa tua, affannato dal tuo quotidiano e poi tutto ad un tratto, non molto dopo, ti ritrovi da un’altra parte, in un altro paese, addirittura in un altro continente, a chilometri e chilometri di distanza da tutto ciò che ti protegge e ti dà sicurezza. Eppure fatichi a realizzarlo e hai la sensazione di non essere poi così lontano.
L’Etiopia ci accoglie, ci abbraccia così come si riabbraccia un amico che non vedevi da un po’ di tempo.
Così il sole che ci dà il benvenuto colorandoci un po’ la pelle, così i paesaggi che attraversiamo per 350km, ma soprattutto le persone di pelle nera che ci riconoscono stranieri - di pelle chiara - ma sono ben contenti che siamo arrivati. Non ci conoscono, ma ci salutano; non parliamo la stessa lingua, ma ci sorridono e con un sorriso sei certo che ci si capisce anche in capo al mondo, e soprattutto, a qualunque età, persino i più piccoli, sanno che siamo lì per aiutarli. In un modo o nell’altro.

I piccolini, diciamo fino al decimo anno di vita, quando ci vedono, corrono, cercano di raggiungerci (questo anche se siamo in macchina) e urlano “You you you”, tanto è evidente che siamo “stranieri”. Sì, perché il loro “you” non significa “tu” ma “straniero”. E a uno straniero ci si rivolge in inglese. Questo è ovvio, no!? ;)
Se poi capiscono che non riescono ad avvicinarsi, ci sorridono e alzano la loro manina per salutarci. Sono felici di vederci, perché per loro siamo importanti. 
Quando invece si stabilisce un contatto, dopo il classico “what’s your name?!” detto più o meno bene, specialmente dai più piccoli, ci chiedono se hai qualcosa per loro. Questo sempre.  Anche se, rispetto all’altra volta, noto richieste diverse.
Nessuno questa volta mi chiede di dargli la maglietta, il braccialetto o la gomma da masticare. Questa volta reclamano le “caramela” (caramella) e la “gazeta” (giornale), ma quando gli faccio capire che non ne ho e che piuttosto gli posso donare me stessa, il mio tempo, ho già vinto.
Tutti in fila per la "gazeta"
Come dicevo in apertura, noi tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si preoccupi per noi, che ci dia una carezza, ci consoli e ci faccia sentire speciali.
E loro me lo dimostrano apertamente. Vogliono proprio me che fino a un momento prima non sapevo della loro esistenza, né tantomeno loro si sarebbero immaginati di incontrarmi.
E quando li vedo sorridere il mio cuore si riempie di gioia, perché i loro sguardi non mentono.
Probabilmente per molti di loro il poco tempo che gli dedico significa tutto. Molti sono orfani, molti vengono da situazioni familiari disastrose, e il poter stare con me, così diversa da loro, è la carezza di cui hanno bisogno.
Sanno che ci sono e sanno dove potermi trovare. Ogni giorno, nel loro solito tran tran, sanno esattamente dove sono e quando finalmente mi vedono, mi corrono incontro, mi abbracciano felici e fanno a gara per chi riesce a ricevere più attenzioni. Qualcuno mi chiama “sister” (sorella, nel senso di suora, dato che per loro un “bianco in missione” non può che essere un sacerdote o una suora) e qualcuno mi chiama per nome e in questi momenti mi rendo conto di quanto loro riescano a darti, a trasmetterti, quando invece hai insito il concetto che sei tu qui per loro. 


Non voglio fare differenze ma purtroppo sono una, con due braccia e due mani, e devo fargli capire che si fa a turni per essere presi in braccio, per fare una foto insieme o per fare qualche giravolta.
Sono impazienti ma capiscono. E capiscono anche se le parole che io conosco di amarico sono veramente poche. E poi, puri come tutti i bambini di questo mondo, credono ai miei “a domani”, “più tardi lo facciamo” “aspetta che torno presto da te”. Cerco di mantenere le promesse, sento che glielo devo perché non sono come tutti gli altri bambini, loro sono “speciali”, ma purtroppo a volte è solo un modo per avere un po’ di tregua, vista la loro insistenza. E’ un’insistenza “buona”, ma pur sempre stancante.

Gli adulti dal canto loro sono felici di conoscermi e mi accolgono come una sorella. E se poi già li conoscevi, sei un’amica, senza se e senza ma. Mi offrono quello che hanno da offrirmi; pur di comunicare con me, mischiano la propria lingua con l’inglese e un poco di italiano (in fondo quando siamo qui, trattiamo con persone che lavorano e vivono in missioni salesiane di cui molte gestite da preti italiani) per cui, pur sembrando strano, nascono delle vere conversazioni. Inoltre mi danno questa bellissima opportunità di imparare ogni giorno una nuova parola/frase di amarico, che a mano a mano va ad arricchire il mio vocabolario che mi fa sentire dentro a questa storia, integrata nel contesto. Ci dicono che siamo matti a venire a trascorrere da loro una parte del viaggio di nozze; sanno stupirmi quando dimostrano di avere voglia di fare, lavorare ed aiutare, perché immancabilmente penso al fatto che siamo nel Terzo Mondo, dove la povertà regna sovrana e la vita è indietro anni luce rispetto all’Occidente e quindi mi domando come sia possibile, se in fondo questa volontà di lavorare c’è; e in un certo senso mi rassicurano circa l’evoluzione del paese, mostrandomi cellulari all’avanguardia con tanto di account facebook , parlando dell’espansione dell’università, costruendo case e alberghi meno fatiscenti di quelli preesistenti, sistemando le strade affinché siano più sicure e più percorribili e spostandosi con le moto e non più con i bajaj (ape adibiti a taxi per i piccoli spostamenti) come invece facevano ancora tre anni fa. 

Stare con loro non è emotivamente coinvolgente come lo stare con i bambini, ma è nel modo più assoluto un’occasione unica di incontro con chi in apparenza è diverso da te, ma nel confronto diretto ti fa capire che non è così e che le differenze sono preconcetti e sovrastrutture del tutto innaturali.
Tutti viviamo, viviamo la nostra vita e cerchiamo di farlo al meglio. Tutti con gli stessi sogni, tutti con le stesse speranze. Tutti abbiamo bisogno di amore e che i nostri diritti vengano rispettati.
Partire, andare in “missione” in un paese come l’Etiopia significa camminare, lasciare tutto, uscire da se stessi, rompere la crosta di egoismo che ci chiude nel nostro io.
E’ smettere di girare intorno a noi stessi come se fossimo il centro del mondo.
E’ non lasciarsi bloccare dai problemi del mondo al quale apparteniamo: l’umanità è più grande.
Missione è sempre partire ma non è divorare chilometri.
E’ soprattutto aprirsi agli altri come a fratelli, è scoprirli e incontrarli. E se per incontrarli e amarli è necessario attraversare i mari e volare lassù nel cielo, allora missione è partire fino ai confini del mondo.

E’ stata questa la mia seconda volta in Etiopia. Sicuramente rimanere una sola settimana è stato davvero troppo poco, anche se l’ho vissuta pienamente, all’etiope, cercando di accogliere, apprezzare e incamerare tutto ciò che questo meraviglioso paese è in grado di offrirmi.
Ma visto che fin da subito ho realizzato che in realtà tutto qui mi è così familiare e mi fa sentire a casa, non ho alcun dubbio sul fatto che ritornerò.
Oltretutto i nostri amici ci hanno salutati augurandoci un luminoso futuro insieme e di tornare “IL PROSSIMO ANNO” con un bambino.
Va da sé che non si rendono conto di quanto sia difficilmente realizzabile ritornare fra un anno. Per essere realisti. Però è bello ritornare alla propria vita sapendo che a più di 8.000km di distanza hai degli amici che in ogni caso ti aspettano.