Anno nuovo, ritmi
nuovi. Già, il nuovo anno mi ha portato un lavoro… dopo tanto tempo che ero a
casa, è arrivato questo bellissimo regalo sotto l’albero. Tuttavia la mia
quotidianità è cambiata e il tempo per fare le cose che più amo al mondo, è
sempre troppo poco. E così anche il blog è stato temporaneamente abbandonato.
Eppure cercavo un’ispirazione per un post. La sensibilità verso ciò che mi
emoziona di più è sempre attivata e così, di punto in bianco, è arrivata l’idea
per il primo post dell’anno. A proposito di ritmo.
Niente di
straordinario, niente di nuovo, nessuna scoperta, ma semplicemente l’approfondimento
di un’emozione che provo ogni volta che li sento suonare… già, i ragazzini rom
che girano per le carrozze della metropolitana milanese suonando il loro
violino.
Emozione provata
la prima volta che li sentii un paio d’anni fa ed emozione rinnovata ogni volta
che casualmente entrano nella mia carrozza durante i miei viaggi nel sottosuolo
milanese.

Secondo me tutto
quello che ti emoziona al punto da farti venire la pelle d’oca è un’emozione
vera, perché da una sensazione interna viene trasmessa e resa manifesta anche
esteriormente.
E così mi sono
posta due domande: come mai i rom sono tanto portati per la musica? E come mai
ci si emoziona così tanto per un buon brano musicale?
Alla prima domanda
mi ha risposto il buon Franz Liszt che in un saggio del 1859, a proposito degli
zingari scrisse: “Dotati di un senso musicale d’incredibile profondità,
certamente sconosciuto a qualsiasi altro popolo”.
Ed è vero, perché
i rom non potrebbero vivere, morirebbero senza uno strumento musicale. Infatti
utilizzano con grande passione e capacità il linguaggio musicale basando la
costruzione dei brani su due elementi di fondo: l’apprendimento, come per la
lingua parlata, di arie e melodie popolari e l’estro individuale particolarmente
esaltato dalla pratica molto frequente dell’improvvisazione. Difatti è risaputo
che i bambini imparano a suonare uno strumento – il violino,
piuttosto che la chitarra o la fisarmonica – fin da piccoli, spronati dalle
tradizioni familiari, da un genitore o da un fratello che insegna loro a
suonare come da usanza,
ma senza conoscere le note e per andare in strada o sui vagoni della metro a
suonare a memoria per chiedere l’elemosina. Ciò fa parte della loro
cultura nomade, ma non è questo il punto che volevo trattare. Quanto invece il
fatto che a mio avviso l’arte spesso venga eseguita in maniera migliore se non
c’è stato un vero insegnamento, uno schema da seguire, delle regole, corsi ed
esami.
I più grandi geni
della storia dell’umanità a scuola andavano malissimo, ad esempio e secondo me
l’arte (in generale, non parlo solo della musica) è una materia per la quale
uno deve principalmente essere portato. In maniera naturale e istintiva.
Successivamente se a questa passione ed inclinazione naturale si vogliono dare
delle regole, ben venga, ma io sono dell’idea che non ci sia niente di più
terribile di un artista che ha frequentato tutte le scuole per diventarlo, ma
che poi manca dell’assoluta passionalità, creatività ed emotività per eseguire
al meglio la propria professione.
Invece per quanto
riguarda la cosiddetta pelle d’oca, la risposta chiaramente sta nel nostro
cervello.
Infatti secondo
gli studi effettuati da un neurologo canadese, il cervello dell'uomo reagisce
alla musica con l'attivazione di alcuni centri del piacere, una reazione che
avviene anche durante le cosiddette "attività gratificanti", come
l'assunzione di droga, mangiare o l'attività sessuale.
Inoltre lo studio
ha evidenziato che i professionisti della musica ascoltano in modo diverso
rispetto ai semplici appassionati. I primi hanno un approccio analitico, i
secondi emotivo.
Tendenzialmente l’approccio
emotivo è prerogativa degli incompetenti che, non avendo una preparazione
specifica, rispondono agli stimoli di una composizione musicale in modo
diretto. Un crescendo fa aumentare il battito cardiaco, un passaggio veloce -
non necessariamente di grande virtuosismo - crea stupore e ammirazione. Una
melodia struggente commuove subito, eccetera. Il professionista, invece, ha un
ascolto analitico. Ogni nota che sente deve trovare una collocazione nella
struttura del pezzo. Durante l'ascolto il cervello attua una sorta di
decostruzione continua. Se il brano è per orchestra vengono individuati i
diversi timbri, quindi collegati ai rispettivi strumenti, poi viene fatta una
valutazione sulla qualità dell'esecuzione. Alla fine, se tutto procede senza
intoppi, arriva una briciola di emozione.
Tuttavia è emerso
che non è così per tutti e per fortuna molti professionisti non hanno mai perso
l'ascolto emotivo.

Per chi non sapesse o semplicemente non si ricordasse quale è il Canon in D di Pachelbel, qui di seguito il video di una delle tante esecuzioni che ci sono in Youtube
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