giovedì 3 novembre 2011

La "mia" Etiopia




Sono già passate alcune settimane dal mio ritorno in Italia, ma ancora oggi, quando la mattina apro gli occhi, posso constatare quanto l’esperienza in Etiopia mi abbia lasciato, già a partire dalla gestione del tempo e dallo scandire delle ore. Già, il tempo, quello che noi riteniamo non essere mai abbastanza, rapiti come siamo dalla quotidianità frenetica fatta di impegni lavorativi e familiari. Eppure è la nostra vita e anche a me sembra normale che sia così, ma mi è bastato andare in Etiopia, seppure solamente per una ventina di giorni, per realizzare come la suddivisione della giornata nelle 12 ore del giorno e della notte, l’uso del calendario giuliano piuttosto che quello gregoriano (hanno da poco festeggiato l’arrivo dell’anno 2004) e il loro stile di vita basato su ritmi lenti e cadenzati possano coinvolgerti al punto tale che a distanza di tempo ancora ne “risenti”.
Poche righe non sono certamente sufficienti per raccontare l’emozione di qualcosa vissuto intensamente. E questo perché ho avuto la possibilità di vivere l’Africa lontano da ambienti “colonizzati dai turisti”.
Potrei parlare dei molteplici colori che si trovano in natura, così come nei tessuti dei loro abiti tradizionali; delle atmosfere e degli odori di incenso e di spezie che si propagano nell’aria; del “caldo africano”che tutti abbiamo sentito nominare migliaia di volte nei telegiornali ma che, ironia della sorte, in Etiopia non è arrivato (è stato infatti uno shock rientrare in Italia a fine agosto, lasciando temperature gradevoli mai al di sopra dei 23 gradi, per arrivare in quello che era un vero forno); della vegetazione e degli animali incontrati lungo i vari tragitti in macchina, che mi hanno permesso di capire che i protagonisti sono loro e non tu, motorizzato; dei ritardi e delle mancanze tipicamente africani che si ritrovano in qualunque tipo di situazione, lavorativa e non, come ad esempio arrivare in ritardo ad un appuntamento “perché piove”; della mentalità così diametralmente opposta alla nostra (dove ad esempio sembra logico costruire alberghi per i turisti ma poi arrestarli se fanno foto al mercato... chi è quindi il turista che, sapendolo, ci fa ritorno o pubblicizza l’esperienza?) e della disorganizzazione latente, anche se ho capito che l’Africa è così: funziona a modo suo e soprattutto al ritmo suo; della musica sia sacra che non, che viene suonata e cantata con gioia manifestata espressamente attraverso balli e battiti di mani da giovani e non; del semplice salutarsi e chiedersi a vicenda come si sta che richiede comunque molti passaggi per un rito assai più complesso del nostro stile più secco e diretto se non addirittura omesso; delle difficoltà oggettive nel parlare non conoscendo io la loro lingua e loro pochissimo l’inglese, ma è stato bello vedere come il linguaggio non verbale davvero possa farti comunicare con qualunque popolo e nella maniera più semplice e genuina; dei ragazzi che ti chiedono a ripetizione, come un gioco che li diverte, come ti chiami e che quando ti vedono arrivare in lontananza ti corrono incontro e fanno a gara per abbracciarti, tenerti per mano o giocare con te; del fatto che noi “bianchi”, riconoscibili e identificabili come stranieri (e richiamati con un “You you you” dai bambini lungo la strada, dove “you” sta proprio a indicare “straniero”), ai loro occhi siamo provvisti di quantità di denaro o comunque di introiti che loro (nella maggior parte) non vedranno mai in tutta la loro vita e quindi, come in un meccanismo innato, ti chiedono ripetutamente e insistentemente di dare loro denaro, indumenti, una “caramela”, una “mastica” oppure dei “biscuits”, nel loro linguaggio che spesso diventa un misto di amarico e inglese per farsi capire; ma anche del contrario e cioè della loro ospitalità e cordialità, perché se io sono andata lì per fare un’esperienza di volontariato dedicando loro il mio tempo, le mie conoscenze e capacità nel limite del possibile, le persone con cui sono entrata maggiormente in contatto, mi hanno accolta con calore, con gioia mi hanno invitata a bere del caffè a casa loro, a mangiare injera e popcorn dolci e mi hanno regalato i loro prodotti tipici da portare in Italia, e questo nonostante i problemi quotidiani (economici e non solo) che li affliggono. Le cose da dire sarebbero veramente un’infinità, ma in cima a tutto questo elenco non posso che mettere i sorrisi donati e ricevuti con spontaneità e gioia, che non possono che ricordare costantemente che siamo tutti fratelli e che l’amore può veramente superare le difficoltà create/volute dall’uomo.
Credo infatti che l’entrare in contatto con le persone del luogo sia stata la più importante lezione di vita e di amore che potessi immaginarmi di ricevere. E sicuramente è questa l’emozione più grande che porto nel cuore.
“Quando tornerai, sentirai anche tu il “mal d’Africa”” mi era stato detto prima della partenza da chi in Africa ci era già stato. Anche io? E perché?  E’ stato normale interrogarsi su che cosa sia questo “mal d’Africa” di cui si è sempre sentito parlare. Ebbene sì, ora anche per me non è più un mistero! E anche se è davvero difficile da spiegare ai “non malati”, posso affermare con certezza che i suoi sintomi si sono manifestati fin dal ritorno alla mia quotidianità, ma che di buono hanno che ti infondono una nuova visione della vita, carica di valori come la positività, la speranza, l’amore donato e un pensiero rassicurante che, se Dio vorrà, mi porterà a far ritorno in quella meravigliosa terra.

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